Il contenzioso nei rapporti di credito bancario

Rapporti di c/c
Concessione abusiva del credito
Le Sezioni Unite della Cassazione si sono infine pronunciate nel senso di tenere responsabile la banca per concessione abusiva del credito ad una società già decotta, creando il precedente a cui saranno vincolate le future pronunce di legittimità.
Il tema della responsabilità della banca per concessione abusiva del credito, sebbene sia stato oggetto di numerosi studi e scritti è tornato alla ribalta tra gli operatori giuridici a seguito della pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione del 28 marzo 2006, n. 7030 (2).
Detta sentenza, pur non introducendo elementi di novità rispetto al dibattito dottrinario e giurispru denziale svoltosi negli ultimi anni, assume rilevanza in quanto, sino ad oggi, sull'argomento si sono pronunciati quasi esclusivamente i giudici del merito mentre la Corte di legittimità, dopo due sentenze del 13 gennaio 1993, n. 343, e dell'8 gennaio 1997, n. 72, che hanno espresso un orientamento rivelatosi nel tempo minoritario, se ne è occupata solo incidentalmente, in sede di regolamento di competenza ex art. 43 cod. proc. civ., con le ordinanze del 9 ottobre 2001, n. 12368, e d el 19 settembre 2003, n. 13934.
La sentenza è altresì rilevante perché pronunciata dalle Sezioni Unite le quali hanno dato così vita ad un precedente con cui obbligatoriamente le future pronunce di legittimità dovranno fare i conti. La recente riforma del giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, nell'ambito del progetto teso al recupero della funzione nomofilattica della Suprema Corte, ha introdotto nell'art. 374 cod. proc. civ. il principio in base al quale «se la Sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Ciò sta a significare che le Sezioni semplici della Cassazione, che in futuro saranno chiamate a qualificare la responsabilità della banca che abbia concesso abusivamente credito ad una società decotta, dovranno applicare i principi sanciti dalle Sezioni Unite. Qualora invece abbiano maturato un orientamento difforme non potranno emettere una sentenza, ma dovranno necessariamente investire di nuovo della questione le Sezioni Unite tentando, con argomentazioni critiche convincenti, di indurle a un ripensamento.
Come anticipato in premessa, la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 7030/2006 ha sostanzialmente aderito all'orientamento prevalente di dottrina e giurisprudenza, che ha individuato la condotta lesiva della banca nell'artificioso mantenimento in vita di un'impresa sull'orlo del fallimento, che ha suscitato nel mercato «un'errata percezione della sua realtà finanziaria ed economica» con l'effetto di condurre i terzi «a contrattare o a continuare a contrattare con la società» (10). Secondo tale ricostruzione, la responsabilità da concessione abusiva del credito viene concepita come una sorta di estensione della responsabilità da “danno informativo” inferto direttamente al patrimonio del singolo creditore per far valere la quale il creditore danneggiato dovrà riuscire a provare autonomamente l'esistenza del nesso causale tra il finanziamento illecito concesso dalla banca e l'artificioso mantenimento in vita dell'impresa sovvenzionata (dovrà cioè dimostrare che senza quel finanziamento l'impresa sarebbe sicuramente fallita); dovrà, inoltre, provare che, così come imposto dall'art. 1338 cod. civ., pur usando l'ordinaria diligenza egli non avrebbe mai potuto accorgersi dello stato di insolvenza in cui versava l'impresa abusivamente finanziata; dovrà provare altresì l'elemento soggettivo dell'illecito. Infine, se è creditore anteriore alla concessione del credito, dovrà provare che, ove l'insolvenza non fosse stata dissimulata, avrebbe in concreto attivato tutti i rimedi predisposti dall'ordinamento al fine di evitare o ridurre il danno; se è creditore posteriore, dovrà provare che senza il finanziamento illecito giammai avrebbe stipulato contratti con quell'impresa.
Tuttavia, rispetto a tale orientamento che ha inquadrato la fattispecie nell'ambito della responsabilità extracontrattuale per il «danno da abuso di credito cagionato nei confronti dei terzi, creditori inclusi», la sentenza delle Sezioni Unite ha, in astratto, fatto cenno anche ad un'altra forma di responsabilità della banca derivante dal danno diretto e immediato cagionato al patrimonio della società fallita.
Tale prospettazione, solo accennata dalla Corte di Cassazione, potrebbe essere interpretata, seppure con le dovute cautele, come manifestazione della volontà della Suprema Corte di aderire all'orientamento espresso in dottrina da alcuni autori, i quali, nel tentativo di fornire una tutela più efficace ai soggetti danneggiati dal comportamento della banca, sempre nell'ambito della responsabilità aquiliana, hanno ricostruito il danno come lesione della garanzia patrimoniale generica dei creditori, ex art 2740 cod. civ., rappresentata dal patrimonio del fallito, garanzia diminuita o addirittura annullata a causa del ritardo che la concessione del credito a imprenditore già sostanzialmente insolvente determina nella dichiarazione di fallimento. La ritardata dichiarazione di fallimento provoca infatti un aggravamento del dissesto attraverso l'aumento del passivo, l'ulteriore dispersione dell'attivo e la prescrizione delle azioni revocatorie. Secondo tale teoria concedendo un finanziamento ad una società decotta rinviandone la dichiarazione di fallimento, la banca viene a ledere l'integrità di un patrimonio che la tempestiva dichiarazione di fallimento avrebbe “vincolato” e “cristallizzato” a beneficio della massa dei creditori impersonalmente e globalmente considerata. È dunque in capo alla massa che va riconosciuta la titolarità dell'interesse protetto con tutta una serie di facilitazione in punto di elemento soggettivo, onere della prova e quantificazione del danno.
Va infine rilevato che, nelle battute finali della sentenza in commento, come obiter dictum la Suprema Corte ha segnalato una ulteriore ipotesi di danno, c.d. “di natura concorrenziale”, derivante dalla condotta illecita della banca. Secondo la ricostruzione della Cassazione, l'artificioso mantenimento in vita dell'impresa decotta consente a quest'ultima di continuare per un certo tempo ad operare in concorrenza con le imprese che svolgono la stessa attività che per questo sono danneggiate. Infatti, se l'impresa abusivamente finanziata fosse subito fallita, le concorrenti avrebbero potuto operare anche in quella fascia di mercato prima di competenza della fallita. D'altra parte, come detto, si tratta di un mero obiter dictum in quanto la Cassazione non fornisce alcuna indicazione sul tipo di azione da intraprendere, se non che può essere promossa sia nei confronti dell'impresa finanziata che della banca.
Legittimazione del curatore nell'azione di responsabilità per abusiva concessione del credito.
La ricostruzione della responsabilità della banca come conseguenza del danno inferto ai terzi ovvero al patrimonio della società fallita produce diversi effetti anche sotto il profilo della legittimazione del curatore a proporre l'azione risarcitoria.
Con riferimento alla prima forma di responsabilità (danno nei confronti dei terzi) le Sezioni Unite hanno escluso - come del resto ha fatto tutta la giurisprudenza che si è pronunciata sul punto, con l'unica eccezione delle due pronunce del Tribunale di Foggia del 12 dicembre 2000 e 6 maggio 2002- che l'azione di danno da abusiva concessione del credito possa essere configurata come azione di massa per cui è legittimato il curatore.
Per la Suprema Corte, infatti, tale azione ha lo scopo di reintegrare il patrimonio del singolo creditore così come le azioni di danno in favore del terzo direttamente danneggiato da atti dolosi o colposi degli amministratori ex art. 2395 cod. civ. In tale fattispecie il danno dovrà essere valutato caso per caso, sia nell'an che nel quantum, essendo possibile che creditori che hanno diritto di partecipare al riparto non abbiano altresì titolo per il risarcimento di cui si tratta non avendo subìto alcun danno dalla condotta illecita della banca. La stessa circostanza che, nella valutazione del danno, debba distinguersi la posizione dei creditori anteriori - i quali avranno «titolo a dolersi per la partecipazione al riparto, pur sempre all'esito delle azioni conservative del patrimonio da ripartire, dei creditori successivi» - da quella dei creditori posteriori alla concessione abusiva del credito - i quali avranno titolo a dolersi «esclusivamente dell'eventuale incapienza e per tale parte soltanto» - rappresenta un indice ulteriore per escludere che possa parlarsi di un'azione indifferenziata come quella di massa.
Con riferimento alla seconda ipotesi di responsabilità (danno al patrimonio del fallito), la Suprema Corte non è entrata nel merito della legittimazione del curatore a proporre l'azione. Al riguardo, sempre sulla scia del citato orientamento dottrinario che ricostruisce il danno come lesione della garanzia patrimoniale generica dei creditori, ex art. 2740 cod. civ., rappresentata dal patrimonio del fallito, si può affermare che, poiché in tale fattispecie il pregiudizio economico è inferto direttamente al patrimonio del fallito e solo di riflesso a quello dei creditori, il cui danno diretto consiste nella diminuita possibilità di trovare soddisfazione in sede di riparto proporzionale dell'attivo fallimentare, l'azione sarà diretta esclusivamente a ricostituire il patrimonio del fallito e dunque potrà essere configurata come un'azione massa cui è senz'altro legittimato il curatore, al quale spetta un potere di azione anche in qualità di successore nei rapporti del fallito e titolare dei diritti sorti in capo a quest'ultimo.
Con la sentenza del 13 gennaio 1993, n. 343, poi confermata dalla sentenza 8 gennaio 1997, n. 72, la Suprema Corte, sulla scia di un'elaborazione dottrinaria durata oltre quindici anni, ha riconosciuto in capo alla banca una responsabilità extracontrattuale derivante dalla «violazione dei doveri gravanti sul soggetto “banca” a causa del proprio status» nonché dalla violazione delle regole di correttezza (artt. 1175, 1374, 1375 cod. civ.), come pure del dovere di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., alle quali il bonus argentarius, con l'intensità propria dello status professionale cui appartiene, è obbligato, con conseguente obbligo per la banca di risarcire il danno subìto dai creditori o da terzi per l'insolvenza dell'impresa debitrice. Alla ricostruzione della Cassazione si contrappone l'elaborazione compiuta da Scognamiglio (in «Ancora sulla responsabilità della banca per violazione di obblighi discendenti dal proprio status», cit.) il quale qualifica detta responsabilità da status come responsabilità contrattuale: «La situazione soggettiva passiva della quale in questi casi si afferma la violazione, rinviene il proprio riflesso in una correlativa posizione di vantaggio di uno specifico altro soggetto. La sfera giuridica di quest'ultimo viene, infatti, a trovarsi in una situazione di contatto con quella dell'agente, tale da esporla ad un pericolo di danno; e l'esistenza delle regole di comportamento fissate dalla disciplina normativa del sistema bancario, nella prospettiva del dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., determina il sorgere di un obbligo di protezione dell'integrità patrimoniale della sfera giuridica implicata nella situazione di contatto sociale, offrendo così finalmente una persuasiva concretizzazione all'apertura del sistema delle fonti delle obbligazioni evidenziata nella parte finale dell'art. 1173 cod. civ. (...) Se ne può trarre la conclusione che la responsabilità, nascente dalla violazione di una regola dalla struttura poc'anzi cennata, deve essere qualificata come contrattuale, quale “quella nella quale viene imputato il non facere” e non già extracontrattuale».
In astratto, in quanto su tale diversa fattispecie di responsabilità le Sezioni Unite si sono pronunciate solo incidentalmente per decidere sull'ammissibilità del primo motivo del ricorso principale: «nella vicenda in esame il dedotto danno al patrimonio della società non è mai stato allegato autonomamente, ma solo quale indistinto elemento di danno alla massa. Un danno diretto e immediato al patrimonio della fallita, quale presupposto dell'azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito e titolare dei diritti sorti in capo a questi, non venne mai dedotto. La questione, come tale, è nuova perché avanzata per la prima volta in questa sede, e pertanto inammissibile», Cass. 28 marzo 2006, n. 7030, cit., 644. «Vengono ora nettamente distinte due concorrenti forme di responsabilità, quella avente ad oggetto il patrimonio del sovvenuto e quella extracontrattuale avente ad oggetto il danno rinveniente per la “massa” in sede fallimentare, con la configurazione di danni “autonomi” e “differenziati”»: lo sostiene Fauceglia, op. cit., pag. 647.
"Nella fattispecie in esame il fallimento dell'impresa abusivamente finanziata (...) si pone come evento storico non essenziale a renderla rilevante (...) in questo senso deve essere intesa la giurisprudenza della Corte di Cassazione che si è occupata dell'abuso del credito al fine di determinare la competenza territoriale sulla relativa domanda. Essa osserva che tale competenza si individua con riferimento al luogo nel quale si è verificato l'evento dannoso, che non è costituito dal fallimento, fatto estraneo alla struttura del danno, ma dall'aggravamento del dissesto economico dell'impresa artificiosamente tenuta in vita. Evento che per l'appunto si realizza laddove essa svolge la sua attività economica", Cass. 28 marzo 2006, n. 7030, loc. cit., pag. 645.
Il Tribunale di Foggia con le citate sentenze del 12 dicembre 2000 e 6 maggio 2002 ha riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore ritenendo che l'azione instaurata da quest'ultimo fosse da qualificare alla stregua di una azione «diretta alla conservazione o ricostruzione del patrimonio del fallito, quale doveva essere, senza l'intervento di atti illegittimi, colposi o dolosi commessi dallo stesso fallito o dai suoi complici». Più precisamente il tribunale ha ritenuto che nella categoria delle azioni di recupero cui è legittimato il curatore «si devono includere non solo i rimedi diretti alla restituzione di determinati beni, illegittimamente usciti dal patrimonio del fallito, in modo reale o simulato, ma anche quelli diretti ad integrare il patrimonio stesso con quegli incrementi che avrebbero dovuto appartenervi, se non fosse intervenuta l'azione illecita del fallito e dei suoi complici» (così Trib. Foggia 12 dicembre 2002, cit.).
Cass. 28 marzo 2006, n. 7030, cit., 644 : «L'azione di massa è caratterizzata dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo. Essa nell'immediato perviene all'effetto di aumentare la massa attiva, quali che possono essere i limiti quantitativi entro i quali i creditori se ne avvantaggeranno. Essa tende direttamente alla reintegrazione del patrimonio del debitore, inteso come sua garanzia generica e comunque esso sarà suddiviso attraverso il riparto. Non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l'accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori. Né vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell'esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurare l'eventuale beneficio la mera appartenenza ad un ceto».
Di recente si è espresso in tal senso il Tribunale di Prato con un’autorevolissima sentenza nr. 157/2017 che è meritevole di lettura e approfondimento.
 

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